Sono uno psichiatra sui generis. In precedenza mi sono specializzato e ho lavorato come pediatra, ho preso parte ad alcuni progetti di cooperazione in Africa e in Asia, occupandomi tra l’altro di grandi endemie, e ho sviluppato una certa sensibilità epidemiologica. Rientrato in Italia, dal 1989 lavoro nell’assistenza agli immigrati e continuo in questo campo a interessarmi di epidemiologia, di cui sono appassionato, in specie all’interno della nostra Società Italiana di Medicina delle Migrazioni.
In questi giorni di pandemia le mie due anime, quella psichiatrica e quella pediatrico-epidemiologica, si sono spesso incrociate, e hanno avuto diversi scambi d’opinione. Si sono fatte alcune idee. Intanto che quando si è deciso di chiudere la stalla, gran parte dei buoi era già scappata, ma di questo esse (le due anime) non si dolgono: era troppo difficile prendere misure drastiche in un paese democratico prima che il pericolo fosse davvero percepito dalla popolazione. Quando si è agito, il virus era verosimilmente già diffuso in un modo da non poter più essere arrestato ma solo, non senza difficoltà, contenuto.
Vivendo a Milano, e avendo colleghi e amici che vivono e lavorano nelle zone di focolaio epidemico, ho compreso dai primi momenti che il numero delle diagnosi era ampiamente sottovalutato. Tante tra queste persone a me care, benché a casa con un tipico quadro clinico da Covid-19 e un’anamnesi di contagio pressoché sicuro, non erano state diagnosticate con il tampone, e così i loro familiari sintomatici.
Mi sono presto immaginato che il reale numero degli infetti andasse probabilmente moltiplicato per dieci rispetto ai dati ufficiali. A qualche collega il tampone diagnostico è stato fatto solo prima di riammetterlo al lavoro in ospedale, a oltre un mese dal contagio e dopo due-tre settimane dall’esordio della sintomatologia, rientrando, se positivo, tra i cosiddetti “nuovi contagiati” almeno un mese dopo il contagio effettivo. I dati ufficiali dunque valevano poco, e il virus era verosimilmente molto diffuso, almeno in Lombardia. Queste mie impressioni aneddotiche sono andate via via confermandosi dagli studi che vengono pubblicati in questi giorni. In uno recentissimo sul British Medical Journal si dice che addirittura i casi asintomatici arriverebbero all’80% del totale (Day, 2020): casi che senza ricerche specifiche non sono identificati.
Le prime misure decise dal governo mi sono dunque sembrate sagge e appropriate: avevano lo scopo di rallentare la curva epidemica per consentire alle strutture sanitarie di far fronte ai ricoveri, salvaguardando nei limiti del possibile il benessere individuale e l’economia del paese. Per la salute fisica e psichica della popolazione era utile consentire in sicurezza l’attività motoria all’aperto e mantenere in funzione il paese, anche nelle sue risorse produttive.
A volte la mancata chiusura delle aziende è stata stigmatizzata come un modo di privilegiare denaro e interessi economici rispetto alla vita delle persone. Non è così. Circa 40 anni fa un violento terremoto distrusse un’ampia parte del nostro Friuli; la decisione fu di ricostruire e mettere in funzione le fabbriche prima delle case. Non per amore del capitalismo, ma perché le comunità si costruiscono attorno al lavoro. Quella scelta fu una delle ragioni della rapida ripresa di quei territori.
Oggi non ci sono fabbriche da riscostruire, ma povertà da sconfiggere. La povertà è un grave fattore di rischio sanitario. In epidemiologia sono classici ormai, e incontestati, gli studi che correlano l’aspettativa di vita al benessere economico. In altre parole, i ricchi campano più – e assai meglio – dei poveri, anche in paesi con un sistema sanitario eccellente ed universalistico come l’Italia. La minore aspettativa di vita di chi appartiene alle fasce socio-economiche meno abbienti è data da più morti premature, che non sarebbero avvenute senza la povertà; questo gradiente sociale si osserva sia tra paesi diversi sia, come dicevamo, all’interno dello stesso Paese, in termini di maggior vulnerabilità alle malattie e/o a esiti peggiori dell’assistenza sanitaria, anche quando è possibile fruirne. Costa e Schizzerotto (2020) ce lo hanno ricordato anche in questi giorni, spiegandoci perché anche di fronte all’infezione da coronavirus non siamo tutti uguali: i poveri pagano il prezzo più alto.
Una grave crisi economica porta con sé povertà, soprattutto per i deboli che più facilmente finiscono ai margini. Si tratta di persone e di famiglie che, già prima della crisi, riescono a stento a soddisfare i bisogni primari, che un evento imprevisto (un divorzio, la rottura dell’automobile, necessità di cure dentarie…) può già ridurre in quella condizione che viene detta di povertà relativa. Sono persone che abitano in condizioni insalubri e si nutrono male, che possono trovarsi costrette a rinunciare a cure necessarie perché non riescono a pagare le microtasse richieste per accedere ai servizi sanitari (chiamate “compartecipazione alla spesa” e anche, con un curioso inglesismo, ticket, come a lasciar intendere che bisogna pagare il biglietto per curarsi), o perché non hanno le risorse culturali per ottenere gli stessi servizi in modo gratuito, anche quando spetterebbe loro. Questa povertà produce morti premature.
In altre parole: una grave crisi economica genera morti. Per questo è necessario proteggere quanto più possibile l’economia, per proteggere reddito, lavoro, benessere e, in ultima analisi, vite umane. A pagare questo prezzo sono i più fragili: chi già vive in condizioni precarie, con lavoro e reddito instabile, che facilmente è espulso dal sistema economico e scivola, in una deriva sociale, ad arenarsi al fondo della nostra società. Diventa uno di quegli “scarti umani” su cui ci ammonisce da tempo Papa Francesco. I migranti sono tra i più vulnerabili di tutti, sono stati tra i primi a perdere il lavoro dopo la crisi del 2008, e lo stanno dimostrando anche durante questa epidemia (Liem e coll., 2020).
Molti di noi ricordano il grande aumento di presenze nei nostri ambulatori del volontariato in tante città d’Italia dopo la crisi del 2008; in quegli anni vedemmo venire nei nostri servizi per gli immigrati anche italiani impoveriti dalla crisi, che non riuscivano più a curarsi nel modo consueto. In quegli anni ci furono morti da povertà. E colpirono i più deboli, le maggiori vittime della crisi.
È un concetto di cui non sento parlare, in questi giorni. Sui mezzi di comunicazione sembrano esserci solo infettivologi, che pensano all’epidemia e al modo di arrestarla. E il resto? Il resto della sanità pubblica? In questi giorni continuano ad ammalarsi e a morire più persone per ragioni diverse dal Covid-19 che per l’epidemia; quanti di loro moriranno nei prossimi mesi e anni per effetto delle misure contro il virus? Tra l’altro per il fatto che avere le cure abituali per le malattie croniche in questi giorni s’è fatto difficile. Come ci ricorda Mario Geddes (Geddes. 2020), “Vi è la necessità di recuperare rapidamente i livelli assistenziali e la continuità di percorsi in atto prima di questa emergenza, che hanno avuto – nell’ambito delle patologie croniche – una inevitabile, ma non più accettabile, caduta di attenzione e di tempestività, affinché ai postumi di questa epidemia non si sommi una caduta complessiva della salute della popolazione”. Insomma, non c’è solo il virus.
Le prime misure, prese tra l’8 e il 10 marzo, sembravano andare in una buona direzione. Naturalmente i loro effetti, considerando tempi di incubazione della malattia e ritardi nelle diagnosi, si sarebbero cominciati a vedere solo a distanza di due-tre settimane. A questo punto alcuni responsabili locali, ad esempio alcune autorità di rilievo della regione dove abito, non hanno mantenuto la calma. Invece di rassicurare la popolazione per il tempo necessario a cogliere i risultati delle misure già prese, hanno cominciato ad accentuare gli allarmi.
Ci sono state autorità locali che hanno cominciato a biasimare pesantemente coloro che facevano attività motoria all’aperto (pur nel pieno rispetto delle raccomandazioni sul distanziamento fisico) e le aziende che continuavano a produrre, accusando queste e quelli più o meno esplicitamente di diffondere l’epidemia, come moderni untori; il governo, sotto questa pressione, ha predisposto norme più rigide. Da quel momento, non si sente che ripetere “State a casa!”.
Un paio di giorni dopo questa ulteriore stretta normativa le infezioni hanno cominciato a declinare, come previsto dalle norme precedenti, che si stavano rivelando appropriate. La comunicazione pubblica al contrario non è stata a mio parere appropriata. La salute mentale, in corso di eventi catastrofici, è molto rilevante, sia in sé, sia perché da essa dipende in parte anche la salute fisica, influendo ad esempio sul rischio di infezioni e malattie polmonari (Seminog e Goldacre, 2013) e determinando comportamenti e adesione alle terapie (Sartorius, 2013). È fondamentale che la salute mentale sia considerata nella gestione delle emergenze sanitarie (The Lancet Psychiatry, 2020), che la comunicazione da parte dei decisori sia conseguentemente appropriata, senza inutili allarmismi, e questa necessità è stata specificatamente richiamata per la pandemia in corso (WHO Europe, 2020, Yao, Chen e Xu, 2020), perché la gestione dell’epidemia comporta distanziamento sociale e isolamento, che sono importanti fattori di rischio per la salute fisica e psichica, e per i quali sono necessari specifici interventi (Beaney e coll. 2020, Smith e coll., 2020, Venkatesh e Edirappuli, 2020). Infatti, l’isolamento durante l’epidemia di Covid-19 ha determinato effetti negativi sulla salute fisica e psichica, evidenziati da un recente lavoro pubblicato su Psychiatry Research (Zhang e coll., 2020): gli autori raccomandano ai responsabili politici di tenere in dovuto conto questi effetti dell’isolamento severo. Da questo e da altri lavori risulta che un elemento fondamentale per promuovere la salute psichica e quella mentale è l’esercizio fisico, in particolare all’aperto, e non mancano raccomandazioni in tal senso, specie per i bambini (Mayo Clinic, 2020, Rimmer, 2020, Unicef, 2020). Insomma, c’è anche altro oltre al virus.
È facile strillare “C’è troppa gente in giro!”, più difficile è fare le cose bene, considerando la complessità della situazione. “Si potrebbe (…) osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme…”: con queste parole, a commento dei comportamenti dei governanti della Lombardia nel corso della peste seicentesca, Manzoni conclude il capitolo XXXI dei Promessi Sposi (Manzoni, 1825 p. 570). Parole sagge, e suggestive anche oggi. Nello stesso capitolo racconta di come le autorità fossero piuttosto distratte da altre faccende, agli occhi loro più interessanti della peste, come non so che guerra in cui erano impegnate; e la mia mente maligna è corsa a pensare alle guerriglie in corso tra autorità regionali e governo centrale, tra maggioranze e opposizioni, per cercar di trarne qualche miserabile vantaggio agli occhi degli elettori…
Non mi pare né che la comunicazione (soprattutto da parte di alcune autorità regionali) sia stata curata e appropriata, né che si sia sempre “osservato, ascoltato, paragonato, pensato” prima di parlare (e agire). Al contrario, è stata impedita alla popolazione ogni attività all’aperto che non fosse un semplice tragitto per raggiungere luoghi di primaria necessità. Bisogna stare a casa. Già, ma quale casa? Non so dove abitino i decisori, e cioè i governanti nazionali e regionali. Sospetto che siano case confortevoli, forse ville con giardino o appartamenti spaziosi, magari con bei terrazzi. Sarà un mio pregiudizio, ma non me li immagino in bilocali bui e affollati. Per loro, che pure continuano a uscire di casa per svolgere le loro funzioni, il confinamento si limita forse al fine settimana, in condizioni probabilmente confortevoli. Anche la maggior parte di noi medici non ha alterato molto la sua vita quotidiana: continuiamo ad andare al lavoro, e nel fine settimana ci riposiamo in case generalmente dignitose e salubri. Non conosco nessun collega che viva in un monolocale, magari seminterrato, insieme a una famiglia numerosa.
Ma altri nostri concittadini? Possiamo immaginarsi cosa significhi vivere confinati in un monolocale o in un bilocale, insieme a un coniuge o a due o tre figli, magari con handicap? Quando forse papà e mamma hanno perso l’impiego, e non hanno diritto ad aiuti pubblici perché il loro lavoro (non meno onesto del nostro, non meno faticoso) non era però “ufficiale”, come succede proprio tra i più deboli? Magari l’abitazione è un seminterrato, o ha un affaccio che non consente di vedere il sole. Può trovarsi collocata in modo da “non avere campo” per il telefono cellulare, e i bambini non riescono a seguire le lezioni scolastiche online. Conosco situazioni di questo tipo. Riusciamo noi a figurarci quella vita, dalla nostra esperienza così differente? Imprigionati, senza più reddito, senza poter uscire di casa. Se almeno fossero cani, avrebbero diritto a essere portati all’aria aperta un paio di volte al giorno. Ma sono bambini. Non avrebbero diritto a essere almeno trattati da cani? In effetti una circolare del Ministero dell’Interno aveva esplicitamente ammesso questa possibilità, ma ha subito suscitato l’indignazione di alcuni presidenti di regione, sui quali è prudente che uno psichiatra non si esprima in pubblico, e la circolare sembra non aver avuto più valore.
Questa è la vita che si vive in alcune famiglie di immigrati. Unire la prospettiva psichiatrica a quella pediatrica aiuta a cogliere questa sofferenza. Molte persone stanno male nel confinamento, fisicamente e psichicamente. Forse non gli abitanti di attici terrazzati, ma molti tra i poveri.
Immaginiamo di essere una famiglia africana, o siriana, arrivata da poco in Italia con i corridoi umanitari. Papà, mamma e due o tre bambini. Immaginiamo di essere stati accolti in un appartamento in coabitazione con un’altra famiglia simile, una stanza per famiglia, più cucina e una sala comune. Non si può uscire neppure per un attimo: alcune prefetture in Italia hanno infatti stabilito che le persone beneficiarie dei progetti di accoglienza per l’asilo non possano nemmeno fare la spesa, sono gli operatori che li assistono a doverlo fare per loro. Una mamma o un papà italiano possono uscire a fare la spesa per la famiglia; ma se sono siriani o eritrei no. Io non arrivo a capire il razionale di questa decisione, a meno di pensare che dipenda dal fatto che non sono della “nostra razza”, per citare una nota espressione del presidente della regione dove vivo.
Il paradosso è che non possono farlo nemmeno i ragazzi che, accolti nei progetti di accoglienza, lavorano come riders per consegnare cibo e medicine nelle famiglie italiane. Possono fare la spesa per gli altri ma non per se stessi. Qualcuno riesce a spiegarsi la logica di queste norme?
In questi stessi giorni, è uscito un decreto del governo che dichiara non sicuri i porti italiani e quindi li chiude. Siccome in Lombardia c’è un’epidemia di Covid-19, vengono chiusi i porti siciliani ai profughi: sarebbe troppo pericoloso accoglierli. Colpa del virus: è per la loro salute, per il loro bene. Come a dire che per i profughi è probabilmente meglio rimanere a farsi stuprare e torturare in Libia, o annegare in mare. Questa sembra essere l’opinione di un governo sedicente progressista, che non apre porti e braccia a qualche decina di profughi della nave Alan Kurdi davanti alle nostre cose; un articolo di Luigi Manconi sulla Repubblica di venerdì 10 aprile è molto eloquente sul tema (Manconi, 2020). Ma si sa, c’è il virus.
Si tratta dello stesso governo che ha conservato con cura le norme sull’immigrazione volute dal precedente ministro dell’interno; norme inumane, dannose per la salute, su cui si sono appuntate osservazioni negative anche del Presidente della Repubblica (oltre ovviamente alle nostre della SIMM). Ma del resto, come si fa a discuterle e a cambiarle? Non si può. C’è il virus.
In Italia si calcola che oggi, anche grazie a quelle norme, ci siano circa 600.000 immigrati irregolari: non possono lavorare né ottenere legalmente un alloggio. Oggi per queste persone sopravvivere è difficilissimo. Nello stesso momento i nostri campi hanno bisogno di manodopera stagionale: cosa aspetta il governo sedicente progressista a sanare in qualche modo la loro posizione? Come possiamo accettare che 600.000 persone in una situazione di epidemia siano fuori da ogni controllo sociale e sanitario? A questo proposito, il virus non sembra esserci più… Sul Foglio dell’11 aprile Luciano Capone suggerisce con eccellenti argomentazioni di utilizzare il permesso di soggiorno per calamità, previsto proprio dal decreto sicurezza del precedente ministro dell’interno; visto che l’attuale governo è tanto coerente nell’applicare quelle norme, lo sia fino in fondo.
Siccome c’è il virus, si mantengono norme sull’immigrazione con un cattivo odore di razzismo che fanno male alle persone; si impedisce ai bambini di uscire almeno quanto i cani; si discriminano i richiedenti asilo e i rifugiati nei programmi di protezione limitando ancora di più la loro autonomia; si ignora l’esistenza degli immigrati irregolari, scarti a tal punto da non meritare neppure che ci si ricordi della loro esistenza; né sembra che siano presi in considerazione i danni alla salute che proprio i più poveri soffriranno a seguito di misure severamente restrittive dell’economia.
Vorrei che si parlasse anche di questo, non solo di virus. In un’ispirata lettera, Guido Dotti, monaco della comunità di Bose, contesta l’abusata metafora secondo cui siamo in guerra: questo non è il tempo della guerra (per fortuna, perché come militari noi della SIMM valiamo poco…), ma il tempo della cura, la cura amorevole per i fratelli nel bisogno; e molti migranti lo sono.
Il grande anatomopatologo tedesco Rudolf Virchow, che fu tra l’altro assessore alla sanità del comune di Berlino, nel 1848 scrisse che “Se la medicina vuole raggiungere pienamente i propri fini, essa deve entrare nell’ampia vita politica del suo tempo, e deve indicare tutti gli ostacoli che impediscono il normale completamento del ciclo vitale”, e aggiungeva: “La medicina è una scienza sociale e la politica è una medicina su larga scala”.
I politici in corso di epidemia sono i medici della società. Devono saper tenere i nervi saldi e rispettare i tempi e i modi dettati dalla scienza. Di tutta la scienza, non solo della virologia. Non so se qualcuno si prenderà la briga di misurare in termini di morti evitabili la crisi economica che seguirà. O i danni psichici dei più vulnerabili in condizioni di confinamento che possono non essere umane. O quelli a carico di coloro la cui esistenza è ignorata. Ci vuole equilibrio sia per moderare e contenere l’epidemia in atto, sia per evitare le morti future da povertà. I bambini devono poter uscire di casa, beninteso in piena sicurezza, con tutti i distanziamenti necessari, e con multe per chi non li rispetta; ci sono strade, piazze, prati, campi e boschi a sufficienza, nella nostra Italia, perché si possa uscire di casa mantenendo anche dieci metri di distanza dagli altri esseri umani. Per molti è una necessità, perché non vivono in ville con giardino. E perché la salute non è minacciata solo dal virus.
Chi ha responsabilità amministrative deve pensare con lucidità e avere i nervi saldi; altrimenti potremmo scoprire che gli untori vanno cercati altrove, invece che tra le imprese, i rifugiati e chi esce di casa per far prendere una boccata d’aria ai bambini.
Ringraziamento: desidero ringraziare Maurizio Marceca, nostro Presidente e caro amico, la cui competenza in materia di salute pubblica mi ha fornito con generosità indicazioni che hanno molto giovato alla qualità di questo articolo.
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