Recensione all'ultimo libro di Sandro Spinsanti: "LA CURA CON PAROLE ONESTE"

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Di Sandro Spinsanti abbiamo già parlato sul sito della SIMM tempo fa, quando recensimmo il suo precedente volume, “La Medicina Salvata dalla Conversazione”. Oltre a essere un grande esperto di bioetica (e in questo suo ruolo ha offerto con generosità la sua consulenza anche alla redazione del codice etico della nostra società, di cui è amico da decenni), si è molto dedicato, in anni recenti, a studiare gli effetti della comunicazione nelle relazioni di cura.
Da quest’attività è nata una trilogia di volumi dedicata alla relazione di cura. Il primo di questi testi parla della medicina narrativa (La medicina vestita di narrazione), il secondo affronta il tema delicato e sensibile del fine vita, cui Spinsanti ha dedicato una parte rilevante della sua attività di ricercatore, di autore e di formatore (Morire in braccio alle Grazie), tema particolarmente attuale dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale che, supplendo alla latitanza del Parlamento, ha definito alcuni criteri per assistere gli ammalati gravi che decidono di porre fine alla propria esistenza; il terzo volume (La Medicina Salvata dalla Conversazione), infine, è dedicato al valore della conversazione nella relazione di cura.

Questo nuovo impegno editoriale completa la produzione di Sandro Spinsanti sul tema entrando nel merito della tecnica comunicativa. È qualcosa di cui noi medici, a mio parere, abbiamo necessità.


Mi sono laureato in medicina nel 1983, e nei sei anni del corso di laurea non ho sentito nemmeno una lezione di tecnica comunicativa; a onor del vero, qualche informazione sull’importanza della comunicazione in medicina avevo avuto il privilegio (raro, ai tempi) di riceverla al terzo anno, nel corso di Etica Medica che la mia università con lungimiranza richiedeva come obbligatorio (tra l’altro, il giovane professorino che m’impartì quel corso, che ancora ricordo tanto bene a distanza di quarant’anni, si chiamava... Sandro Spinsanti).

Non ho poi sentito nessuna lezione sulla tecnica comunicativa nei successivi quattro anni nei quali mi sono specializzato in pediatria e neppure (e questo appare piuttosto clamoroso) nei quattro che mi sono serviti, in seguito, per specializzarmi in psichiatria, un settore della medicina in cui la parola gioca un ruolo senz’altro rilevante. In quest’ultimo corso ebbi però la fortuna di sentire due ore di lezione sull’azione placebo, che se non altro evidenziò il valore della relazione.
Questa mia personale esperienza non è isolata, ne ho parlato spesso con colleghi della mia generazione e sono risultato paradossalmente tra coloro che avevano ricevuto più formazione sulla comunicazione in medicina! Questa breve storia è piuttosto emblematica di una realtà poco incoraggiante: alla facoltà e nelle specializzazioni non impariamo come parlare con i nostri pazienti. Neanche per le nuove generazioni la situazione sembra essere molto cambiata: benché si faccia qualche corso sul valore della comunicazione, una vera formazione al counselling in ambito sanitario, in grado di utilizzare la comunicazione come un efficace strumento di cura, non è comune.

Gli effetti negativi di questa situazione non si limitano alla mancanza di informazioni e di formazione per noi medici, ma hanno un’implicazione psicologica più sottile e più profonda: non ci sensibilizzano all’importanza della questione. In genere passiamo i successivi 50 o 60 anni di professione (sono un tipo piuttosto ottimista) a ri-studiare e ad aggiornarci in gran parte su questioni che abbiamo imparato a considerare importanti al tempo dei nostri studi. È più difficile che ci dedichiamo a studiare questioni su cui allora non ci siamo sensibilizzati, che ci appaiono come del tutto nuove.

Questo testo di Sandro Spinsanti ci offre un’opportunità di fare una piccola rivoluzione personale nel nostro approccio alla professione, quella di imparare la tecnica della comunicazione partendo da un principio-chiave: l’onestà delle parole. “Parole oneste” significa parole vere, sincere, trasparenti; avendo ben chiaro che dire la verità non significa essere crudi, freddi, duri. L’onestà della verità si può coniugare molto bene con l’umanità dell’empatia.
L’autore, e chi lo conosce lo sa bene, è un uomo colto e spiritoso. La ricchezza culturale gli consente di volteggiare tra la produzione cinematografica e i grandi della letteratura (da Tomas Mann a Tennessee Williams, dalla Traviata a Leone Tolstoj, da Casanova a Wislawa Szymborska, dall’Ariosto a Cervantes, dal Belli a Pirandello, solo per citare qualche nome) per andare a pescare i casi esemplari su cui argomentare le sue idee, in una combinazione raffinata di bellezza letteraria e di profondità culturale. Il suo senso dell’umorismo gli consente di avvicinarsi in modo lieve e gradevole a temi tanto delicati senza mai perdere il rispetto dell’ammalato, dei suoi familiari e di chi se ne prende cura.

La prima parte del libro si occupa di “parole disoneste”, intendendo con queste non l’inganno intenzionale e fraudolento, che l’autore non vuole neppure considerare, ma le bugie pietose, le reticenze, quelle situazioni in cui il clinico, controllando e deformando le informazioni, si assume la responsabilità di decidere per il paziente, limitando la sua autonomia.
Era un atteggiamento molto comune in passato, come Spinsanti documenta con testi presi dalla letteratura scientifica e dalla narrativa, cui si associava la frequente connivenza dei familiari, anch’essa a intromettersi tra la verità e l’autonomia dei pazienti. Quella posizione del “medico buono” e pietoso, alla luce dei cambiamenti normativi degli ultimi decenni e della facilità di avere informazioni (più o meno valide) su internet, non è più praticabile. Ma cos’è arrivato al suo posto? Esiste il rischio di una comunicazione cruda, fredda, burocratica che non si cura degli stati d’animo dei pazienti.
Sandro Spinsanti ci dice che “Dire la verità in questi termini non è la giusta alternativa alla menzogna. Sia l’una che l’altra si collocano in antitesi alle parole oneste in ambito clinico”. Invece, “l’informazione deve essere commisurata alla domanda della persona malata e alla sua capacità di metabolizzarla. È quanto dire che le parole oneste sono quelle che presuppongono un ascolto, prima di un’informazione, e nascono nel contesto di una conversazione”.

L’autore si occupa anche dell’impatto che la comunicazione ha sui sistemi sanitari nazionali, soffermandosi sulle scelte tragiche di cui parla nel suo libro Cure primarie e servizi territoriali il nostro socio Gavino Maciocco: molte persone nel mondo, venendo a conoscere la verità, si trovano nella posizione, tragica, di scegliere se curarsi e trascinare nella miseria la propria famiglia o se rinunciare alle cure.
Alcune parole oneste sono particolarmente difficili. Quelle che annunciano la fine del nostro percorso vitale, ad esempio. Ci sono parole (cure palliative, hospice...) che spaventano a tal punto pazienti e familiari da spingere a rinunciare a servizi fondamentali. Tanto più che spesso il momento del fine vita è quello dell’incertezza, in cui non si sa bene cosa sia meglio fare: proseguire o no le terapie “curative”, ad esempio. Per noi medici dire “non so” è tanto difficile. Ma è la verità, molto spesso. Conosciamo le statistiche. Sappiamo che in quella certa condizione clinica l’aspettativa media di vita è di sei mesi, ma quella è appunto una media: vi sono pazienti che muoiono quasi subito e qualcuno due anni dopo. La risposta “non so” è spesso la più onesta. E non è una risposta inutile, se è accompagnata dall’impegno a stare vicino al paziente, scegliendo insieme a lui i passi successivi.
Così come difficili sono le parole con cui riconoscere i propri errori; eppure l’errore è il compagno di strada del medico, non separabile dalla sua natura umana. Più siamo pronti all’errore, a riconoscerlo e a scusarcene, più è probabile che sapremo gestirlo con efficacia, sia nei suoi effetti clinici, sia negli aspetti della relazione con chi è affidato alle nostre cure.

Insomma, questo libro ci insegna ad assumerci responsabilità: non solo quella di curare, cui siamo abituati, ma anche quella di dire come, di scegliere onestamente in modo partecipato con i pazienti i passi terapeutici da scegliere o cui rinunciare, insomma di essere umani insieme ad altri umani.
È il senso ultimo di una medicina umana.

 

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